Roma sparita

17 aprile 2020

Er macellaro romano e il quintoquarto


I cuochi e le massaie romane hanno creato un vero paradiso gastronomico con poco...
Grazie infatti all'utilizzo del cosìdetto quinto quarto, in altre parole lo scarto, gli avanzi dei tagli nobili effettuati dai macellai,  s ono riusciti a  realizzare alcune delle ricette romanesche più famose, che vengono preparate proprio con quella che una volta era considerata la carne dei poveri. Parliamo di coda alla vaccinara, rigatoni con la pajata, animelle fritte, testina al forno, trippa... 


Quinto quarto.
Oltre ai quattro quarti del bovino, che contengono i vari tagli pregiati di carne, dalle fettine al girello, dal piccione alle bistecche di lombo e di costa, dal filetto allo stufatino e così via, esiste un quinto quarto costituito dalle parti che un tempo soddisfacevano una cucina povera, molto povera.
Infatti nel quinto quarto rientrano il fegato, la pajata, la milza, i polmoni, il cuore, il lombatello (posto tra fegato e polmone), la testina e gli zampi di vitello, la coda, i granelli (testicoli), il rognone (reni), le animelle, gli schienali, i torcioli (pancreas), la trippa.

In sostanza tutto quello che rimane dalla macellazione delle bestie, tagliate in due mezzene, poi ridotte in quarti con in più ciò che resta.
Con il miglioramento delle condizioni economiche progressivamente frattaglie conobbero un periodo di scomparsa dalle tavole dei romani


Mattatoio a Roma
Per restituire igiene alle strade dove sangue e interiora di animali provocavano forti miasmi nelle zone dove si faceva la macellazione, si costruì un primo mattatoio nel 1825 addirittura a piazza del Popolo, dove oggi è la caserma dei Carabinieri. 


Poi nel 1890 venne la volta del grande Mattatoio, nel quartiere di Testaccio. Nei suoi quasi 100 anni di vita  questo  Mattatoio  fece rinascere nel quartiere la cucina povera molto molto saporita. 
Addirittura le categorie più povere di lavoratori venivano compensate anche con un soldo in natura: “il quinto quarto”. 
Trippe, rognoni, animelle nelle osterie venivano  cucinate in modo così abile da trasformarsi in piatti gustosi, tradizionali della cucina romana. 


E così il quartiere Testaccio nelle adiacenze del Mattatoio, fra la fine dell'800 e il '900, si riempì di tantissime trattorie , specializzate proprio nella preparazione di questi piatti.
Il Mattatoio ha chiuso nel 1975 ma a Testaccio comunque offre ancora ristoranti che mantengono viva la tradizione della cucina romana.


Il Macellaro di Roma sparita
Nella Roma popolare il macellaro era un personaggio importante ed emblematico, ce lo racconta Zanazzo (Roma 1860 - 1911), il bibliotecario e studioso appassionato, che descrisse le tradizioni e il folklore romano con poesie, opere teatrali, novelle, leggende e proverbi.
Zanazzo fra tutti i venditori di generi alimentari lo giudica il più simpatico, spiritoso, burlone.
Famosi sono i siparietti incentrati proprio su questo personaggio romano.
1a scenetta
Quando le serve per darsi arie da signore disprezzavano la carne offerta dal macellaro romano, allora la sua risposta non si faceva attendere:

— Come! — je dice —’sto pézzo de scannéllo nun te fa? Abbada che tte sei fatta propio scontenta! Da quanno cascassi pe’ le scale, che tte so’ ccresciuti queli du’ bbozzi in pètto, nun ce se pô ppiù ccombatte... Zitta; vié’ qua: si’ bbôna; ché mmó tte contenta Checchino tuo. Dimme indove la vói: in der cularcio o in der fracoscio?... Qui? Brava! 

B. Pinelli
Il carnacciaro

Allora tagliava un pezzo di carne, magari il peggio che aveva nella bottega, chiamava il ragazzino, e gli diceva:— Avanti, regà’, allarga la spòrta a ’sta bbellezza, infilejece drento la carne: ccontentemela bbene, veh?...
Un’altra serva :
— Ahó nun me dà’ la carne come jeri, che quanno la cacciai da la pila, s’era aritirata tutta.
E er macellaro, serio serio:

— Eh cche tte fa specie? Tutta la carne bbôna, còcca mia, quann’ha ffatto l’obbrigo suo, s’aritira.
Un’altra, gli domanda:
— Ciai pormóne?

— Pormóne, nossignora: è tterminato. L’ho vvennuto tutto a le moniche de San Rocco. Stammatina je passa la visita er cardinale; e lloro cé se so’ allustrata la ggibbérna.

Un’altra serva gli dice che la carne che ha preso il giorno avanti, non era tenera.
E llui:
— Cócca mia, nun te fa ssentì’ ddì’ ’ste resìe! La carne che tte do io, è un butiro, una ’giuncata!


2a scenetta
Dar macellaro

La serva - Sei sordo? du' braciole de filetto,
e tu me dai 'sta cosa spuzzolosa?

Er macellaro - Puzza? Eh, ve puzzerà quarch'antra cosa:là... ciarimane sempre quer tanfetto. Che tono avete arzato, sora Rosa!

Giàa, da quanno cascassivo da' letto,
che ve crescerno 'sti du' bozzi in petto,
ve sete fatta propio profidiosa.

La serva- Sta fermo co' le mano! E 'ste braciole?
Er macellaro - Ecchele, si le vòi; mica te possoroppe' un quarto pe' du' braciole sole.Ciò 'n pezzo de merollo, maa! ben fatto:
si lo volete ve lo do senz'osso!

La serva - E' troppo inacidito: dall'ar gatto!

E quando non aveva altro da dire, il macellaro con il coltello affilato in pugno, il macellaro recitava questa filastrocca:
Sta carne è come l’arsura,
che ogni bucio attura,
purifica, specifica, dolcifica,magnifica, scarcagnifica ..
Ammazza er vèrmine
E ccrèpa la cratura:
Spigne, slónga, slarga,
E vvi scanza li péli de la bbarba!».

11 aprile 2020

I bergamaschi a Roma dal secolo XVI

Chiesa dei Santi Bartolomeo e 
Alessandro dei Bergamaschi 
(conosciuta anche come 
Santa Maria della Pietà)

A partire dal secolo XV, per assistere i pellegrini e i romei provenienti dagli stati esterche giungevano a Roma, vennero ufficializzate molte Chiese nazionali, collegate ad ospedali, ostelli e servizi di varia assistenza.  Si trattava di chiese cattoliche affidate ciascuna ad una comunità nazionale, e per nazioni ci si riferiva anche alle comunità dei residenti a Roma, ma originari di altre parti d'Italia [per approfondire...].


I bergamaschi e l'Arciconfraternita
In particolare per rintracciare a Roma una cospicua colonia di bergamaschi si deve andare a ritroso nel tempo,  fino al secolo XVI. Sono operai, artigiani, mercanti di lane e di seta, corrieri, magistrati, uomini d’armi, di lettere e di chiesa. Così alcuni di essi, per impulso specialmente del canonico Giovanni Giacomo Tasso, prozio del famoso poeta Torquato, decidono nell’anno 1539 di dar vita ad una "Compagnia", che assumerà in seguito la denominazione di "Venerabile Arciconfraternita dei Santi Bartolomeo e Alessandro della Nazione Bergamasca". 
Lo scopo era quello di assistere nei loro bisogni religiosi, morali e materiali quei cittadini del distretto di Bergamo che avevano preso in Roma stabile dimora, e di tenere sempre vivi l’amore ed il culto della propria Nazione. 
A. Pinelli,
santa Maria della Pietà
Gruppi del genere hanno grande sviluppo nella Roma del XVI secolo. 

La chiesa di san Macuto
I bergamaschi ottengono dal Capitolo di San Pietro in Vaticano la chiesetta di San Macuto, nell'omonima piazza (vicino a Via del Seminario) come loro sede ("istromento" redatto il 14 agosto 1539 dal notaio Francesco Spina); l’edificio viene da loro restaurato e vengono aggiunti un locale per gli incontri spirituali (l’ “oratorio”) ed un ospedaletto (1544).
La Confraternita acquisisce benemerenze in ambito religioso, culturale e caritativo e in virtù di ciò si meritò pubblicamente la benevolenza dei Sommi Pontefici, che le elargirono diversi privilegi e la insignirono del titolo di Arciconfraternita.

I Gesuiti ottengono la chiesetta.
Fino ai primi decenni del XVIII secolo non ci furono problemi.. però la chiesetta interessava anche ai potenti Gesuiti, che occupavano il vicino palazzo Gabrielli Borromeo ed era quindi necessario al Seminario da loro diretto.
Questo edificio era stato venduto nel 1607 per 20.000 scudi alla Compagnia di Gesù per farne la sede del Seminario Romano e del Convitto dei Nobili, e mantenne tale destinazione fino all'11 settembre 1772 
San Macuto
I Gesuiti quindi facendo pressione sul papa  Benedetto XIII (1724-1730) ottennero che  nel 1725 fosse emanato un decreto, che imponeva ai Bergamaschi di cedere ai Gesuiti la chiesetta di San Macuto insieme all’ospedale. 
Il trasferimento non fu però immediato, ma lo stesso Benedetto XIII permise che i Bergamaschi rimanessero ancora per qualche anno nella loro sede ed obbligò i Gesuiti a corrispondere una indennità di esproprio. 
Così  l’Arciconfraternita riuscì ad acquistare la Chiesa di Santa Maria della Pietà, in Piazza Colonna, con l’annesso “Ospedale dei Pazzarelli”, già trasferitosi in Via della Lungara. 
L’Arciconfraternita diventò proprietaria di quel complesso di fabbricati che sorgono attualmente nella zona compresa tra Piazza e Via di Pietra, Via dei Bergamaschi e Piazza Colonna. 
G.Vasi, Il Seminario Romano e
la chiesetta di san Macuto
La Compagnia dei Bergamaschi rifabbricò la Chiesa, aggiungendovi al titolo di Santa Maria della Pietà quello dei Santi Bartolomeo e Alessandro, e restaurò l’edificio annesso destinandolo ad ospedale per gli infermi e i pellegrini bergamaschi.
Nel 1733 viene inaugurato l’oratorio; il mobilio di quello cinquecentesco costruito in San Macuto fu smontato e riadattato in una nuova sala all’interno dell’edificio di Via di Pietra.
Nel contempo si arricchì il patrimonio del Sodalizio, costituito in gran parte dai lasciti di immobili donati dai propri confratelli 
nonché da persone semplici affinché si preghi per l’anima propria e si soccorrano i parenti e i conterranei bisognosi.

10 aprile 2020

Maschere romane. Meo Patacca e Rugantino


Meo Patacca e Rugantino sono due maschere romane che rappresentano certi bulli coraggiosi e intraprendenti, che si possono incontrare a Trastevere, il quartiere più popolare di Roma.

Chi era Meo Patacca
Meo Patacca é il classico bullo romano, sfrontato ed attaccabrighe, esperto ed infallibile tiratore di fionda, ma in fondo, generoso e umano.
Uno spaccone, che parla sempre in dialetto romanesco, mai vile quando scoppia una rissa.
Conosciuto a Trastevere e a Roma per il suo carattere difficile, permaloso e arrogante: prima discute con le mani poi con le parole, Meo Patacca è stato un tipo amato dai romani.
Questa maschera nasce verso la fine del '600, in un poema eroicomico scritto in romanesco, da Giuseppe Berneri (Roma,1637–Roma,15 settembre 1701).


Giuseppe Berneri e il suo poema.
Non si sa molto della vita di Berneri. Nato e vissuto a Roma, fu membro di diverse accademie letterarie del suo tempo, e soprattutto segretario dell'Accademia degli Infecondi, tesa a promuovere un teatro edificante religioso. Cortigiano di casa Rospigliosi, fu autore di drammi sacri e di commedie.  La sua opera principale è il "Meo Patacca ovvero Roma in feste nei trionfi di Vienna", un poema eroicomico  scritto in romanesco.
La composizione del poema, datato 1695-99,  è in ottave ed è formato da dodici canti [leggi qui].
Nel poema di Berneri Meo appare come uno sgherro cioè un "uomo d'armi al servizio di un potente" sempre pronto a battersi e a raccontare spacconateIl suo nome deriva dalla "patacca", il soldo che costituiva la paga del soldato, una somma pari a cinque carlini. E' il tipico popolano del teatro romanesco: indolente e attaccabrighe; lo sgherro facile alla rissa ed allo scontro, però privo di viltà. 
Entra in scena sempre con un costume che lo caratterizza:  calzoni stretti al ginocchio da legacci, giacca di velluto, sciarpa di colore sgargiante, retina che raccoglie i capelli facendo fuoriuscire solamente un ciuffo.
Meo  è il più bravo tra gli sgherri romaneschi, con una predisposizione naturale al coraggio ed alla lite. 
La donna di Meo è Nina, che sembra inventata a sua immagine :
Io so' trasteverina e lo sapete ;
nun serve, bbello mio, che cce rugate.

So' cortellate quante ne volete!

[Versione. Io sono trasteverina e lo sapete;
 non serve bello mio, che vi infastidite. 
Sono coltellate quante ne volete]
Questo stornello basta ad inquadrarne il carattere di donna romana prepotente e inclina alla lite!!
La trama del poema
Prendendo a pretesto un fatto storico, Meo Patacca narra le vicende di un giovane sgherro, cioè un popolano abile nel maneggiare le armi, con un alto senso dell'onore, che offriva i suoi servigi alla propria comunità, compiendo delle buone azioni e combattendo i soprusi. 
Tavola tratta da
Meo Patacca di B. Pinelli
Nell'apprendere la notizia che Vienna è stata assediata, Meo raduna i migliori sgherri di Roma e forma una piccola armata per dare aiuto alla città cristiana. Meo quindi arringa il popolo per sostenere la guerra contro i Turchi che assediano Vienna. Ha come antagonista Marco Pepe, un antieroe, un bullo a chiacchiere. Alla notizia della vittoria (1683), Meo devolve le somme raccolte per festeggiare. Roma è un tripudio di banchetti e di filate di carri allegorici. Ne fanno le spese i “provinciali”, presi a bastonate e i negozi del ghetto, saccheggiati.
Sullo sfondo, la storia d'amore di Meo con la sua spasimante Nuccia fa da contrappunto ai principali eventi della trama.
Tutti i personaggi sono modellati sui tipici popolani romani; alcune delle situazioni sono davvero divertenti, e disseminate da pungenti osservazioni dello stesso Berneri, che si riserva la parte del narratore, spesso aggiungendo i propri pensieri, e di tanto in tanto indugiando nella descrizione dei luoghi famosi di Roma che costituiscono l'affascinante ambientazione della storia.
Inoltre, il poema è una vera miniera di informazioni sulla vita di tutti i giorni nella Roma del tardo XVII secolo: come vestiva la gente del popolo, come era ammobiliata una casa comune, quali erano le formule di saluto, ed altre ancora
Il carattere delle situazioni che via via si dipanano è spesso comico. 
In questo Berneri aveva certamente attinto al celebre poema La secchia rapita (1622) del modenese Alessandro Tassoni e da G. C. Peresio, che aveva pubblicato Il maggio romanesco (1688),poema eroicomico pressoché gemello al Meo Patacca nella lingua e nella struttura, seppure ambientato nel Trecento.
Rugantino
Anche Rugantino è una maschera -più conosciuta- del teatro romano che impersona un tipico personaggio romanesco: er bullo de Trastevere, svelto co' le parole e cor cortello.
Un giovane arrogante e strafottente ma in fondo buono e  de core. 
Quindi riprende alcune degli aspetti che abbiamo visto in Meo Patacca. 
L'aspetto caratteristico di Rugantino è la ruganza, parola romanesca che significa "arroganza", termine da cui deriva il suo il nome
Dobbiamo risalire al burattinaio Ghetanaccio [leggi qui] che nelle sue rappresentazioni spesso aveva come protagonista proprio Rugantino, per intuire che le sue origini risalgano alla fine del 1700. 
La maschera tipica lo vede vestito da popolano con un abbigliamento povero: brache al ginocchio un po' consunte, fascia intorno alla vita, camicia con casacca e fazzoletto al collo.
Il coltello
Il coltello è un altro elemento immancabile e necessario allo sgherro, allo spaccone trasteverino, che vi ricorreva in qualsiasi caso si dovesse fare giustizia. 
Secondo la tradizione, (e così fece Nina con Meo), la ragazza regalava al ragazzo quale pegno d'amore un coltello con il proprio nome inciso. Questo era il compagno fidato da tenere sotto il cuscino la notte e in saccoccia durante il giorno. 
Per C. Pascarella il coltello era come un amuleto e Gigi Zanazzo, inoltre, scrive che una fanciulla si maritava controvoglia ad un uomo che non avesse mai avuto a che fare con la giustizia.