Roma sparita

28 marzo 2023

Il precetto pasquale ovvero come il parroco controlla chi non si confessa e non fa la comunione...


Quando arrivava la santa Pasqua anche a Roma sparita  era obbligatoria l’osservanza del precetto pasquale.
Almeno una volta l’anno e precisamente nel periodo pasqualedalla domenica delle Palme alla domenica in Albis, tutti i fedeli cristiani erano tenuti a confessarsi e a prendere l'ostia benedetta, solo nella parrocchia di appartenenza.  
Il precetto pasquale, cioè la confessione e comunione obbligatoria per tutti i cattolici, a Pasqua era imposto come un dovere morale, anzi un obbligo giuridico, dalla Chiesa.
Per agevolare tutti, il parroco amministrava  continuamente, ed in tutte le ore della mattina, la comunione ai suoi parrocchiani.
Chi non si confessava e comunicava  almeno una volta all'anno sarebbe incorso nella pena dell’interdetto cioè l'impossibilità da vivi di entrare in  chiesa e da morti della privazione della sepoltura ecclesiastica. 

I parroci controllavano i parrocchiani tramite la distribuzione di biglietti
Responsabili di questa, come dire, operazione precetto pasquale erano i tanti parroci di Roma sparita
Proprio perché conoscevano bene le anime della loro parrocchiaera compito loro controllare capillarmente se tutti si comportavano da buoni cristiani.  
E così erano gli stessi parroci che facevano consegnare dal sagrestano ad ogni parrocchianoal momento di prendere il sacramento, un biglietto che valeva da attestato del precetto rispettato… 
Poi terminato il periodo pasquale, giravano  a raccogliere per le case
Certificato di avvenuta confessione
del precetto pasquale
Parrocchia di S.Caterina della Rota (1861)


questi biglietti, che i parrocchiani avrebbero dovuto gelosamente custodire. 
 
Figuriamoci gli imbrogli, le false giustificazioni, le astuzie e i trucchi di ogni tipo a cui dava luogo questo sistema "fiscale".  
Proprio per controllare  i parrocchiani, che volevano fare i furbi, a Roma sparita (ma anche nelle altre province dello stato pontificio vigeva lo stesso regime) nessuno poteva confessarsi e comunicarsi in altro luogo se non nella propria parrocchia, né si potevano presentare attestati di altri parroci. E tutti quelli che si confessavano e comunicavano solo a Pasqua erano detto pasqualini.

Raccolta dei biglietti e guai per chi non lo aveva.  Finita la pasqua, durante la quaresima erano sempre i parroci che stendevano uno Stato delle anime, relativo alla loro parrocchia
Recandosi personalmente in case, osterie, botteghe e locande, controllavano così che tutti i romani adulti e battezzati, ad eccezione dei pubblici peccatori, si confessassero e ricevessero la comunione. Si trattava in sostanza di un registro in cui venivano scritti i dati anagrafici e religiosi dei parrocchiani. Questi censimenti ante litteram, sia pure molto imprecisi e redatti con finalità di controllo della popolazione, rappresentano una preziosa fonte per conoscere il numero e la composizione degli abitanti della Roma pontificia.  
C'era comunque, anche dopo pasqua, la possibilità di salvarsi 
in extremis...  
Terminato però anche il periodo di proroga, il giorno dopo la pentecoste (cioè cinquanta giorni dopo Pasqua) ogni parroco inviava una lista con i nomi degli inadempienti al Vicariato.
Però, poichè spesso i parroci erano corrotti, il criterio seguito nello stendere la lista era lacunoso. Nell'elenco infatti si trovavano esclusivamente nomi di povera gente,  e nel caso in cui il parroco fosse stato onesto e avesse messo nella lista anche i trasgressori, cioè i ricchi, i nobili  allora ci pensava addirittura il potente cardinal Vicario a cancellarli con un colpo di spugna dalla lista.

Il tribunale del Vicario si occupa degli inadempienti. La fase successiva prevedeva che i parrocchiani disobbedienti venissero invitati, entro i seguenti 12 giorni a presentarsi al tribunale del Vicariato per giustificare il loro comportamento, in caso contrario si sarebbe proceduto all'interdetto. Il potere religioso così andava a braccetto co quello giudiziario. 
Infatti tutta questo sistema, che partiva nelle chiese, era poi seguita dal tribunale del Vicario, che, in conclusione, si interessava di stendere un listone degli scomunicati e di farlo affiggere nel portico della chiesa di san Bartolomeo all'isola, il 25 agosto.
A. Pinelli, Chiesa di  
San Bartolomeo all'Isola
Questo è solo uno dei casi significativi di come i preti nella Roma sparita  entravano pesantemente nella sfera privata del popolo povero, ignorante, superstizioso, affamato, e timoroso dell'autorità che circondava la figura del parroco. Costui proprio grazie a questi metodi esercitava un potere capillare sulle anime a lui affidate.

Imbrogli per il biglietto
Questo sistema a Roma sparita 
nascondeva imbrogli, trucchi, falsificazioni come già detto prima. 
Lo racconta Giggi Zanazzo, e prima di lui il Poeta Giuseppe Gioachino Belli
Entrambi infatti  denunciano la corruzione dei preti, nonchè del sistema più in generale di far finire nelle  liste solo i poveracci, che non avendo soldi, non potevano pagare nessuna elemosina per comprarsi un biglietto. La denuncia comprendeva poi anche il fiorente commercio di biglietti che passavano facilmente di mano in mano (vedi la poesia di G.G. Belli Li Chìrichi).

24 marzo 2023

Digiuno durante la Quaresima, ma gran consumo di maritozzi, anche per la Festa degli innamorati.

Durante la QuaresimaRoma sparita, la Chiesa imponeva l'’osservanza di digiuni severissimi in segno di penitenza
E quando la sera si diffondeva per le strade il suono delle campane, che annunciavano l'inizio del periodo quaresimale, tutto il popolo aveva pronto un proverbio: "la campana suona a merluzzo". 
Digiuno per la quaresima
In quei lunghi 40 giorni di quaresima a Roma sparita aumentava il consumo del baccalà, e del pesce.
Per chi se li poteva permettere! 
Tutti si dovevano astenere assolutamente dal consumare carne. 

Dieta dei poveri
Per il popolino la quaresima non era un problema, visto la penuria  di alimenti ricchi e sostanziosi, che non comparivano quasi mai nella sua dieta e della carne, riservata alle grandi occasioni, naturalmente  quella ovina e le viscere dei bovini; a Roma poi si produceva formaggio pecorino, ricotta e latte. 
Accanto al pane la dieta dei poveri era perlopiù fatta di vegetali, come quelli che nascevano spontanei nelle campagne e negli orti addossati alle porte di Roma o nelle tante Ville, e che venivano raccolti dai romani. 
Non dimentichiamo che la cicoria era (ed è) una verdura tipicamente romana e nasce spontanea ai margini di sentieri, campi coltivati, terreni incolti, zone a macerie e ambienti con ruderi,  praterie ma anche in aree abitate dall'uomo. Così si poteva cogliere magari passeggiando a Villa Borghese o ancora durante una gita ai Castelli.

per aggiungere proteine si poteva mangiare una frittata, o dei legumi .
Il prezzo del pane poi era calmierato perchè anche questo era la base della dieta dei poveri... 
Non mancava mai un bel bicchiere di vino [...]  dei Castelli...
Proprio a causa della povertà periodiche erano le distribuzioni di minestre per i poveri , soprattutto nei mesi invernali e primaverili, quando non si trovava più grano e farina di frumento per masse di “miserabili”   e famiglie di braccianti disoccupati.

Dieta dei ricchi
Invece per i ricchi, i nobili e i cardinali  il digiuno imposto in quaresima era un bella rinuncia! 
Una deroga a questo stretto regime alimentare era concessa solo agli  anziani e ai malati, previo permesso scritto da parte del medico e del parroco, era loro concesso  di mangiare uova,  formaggio e la stessa carne
E così grazie a qualche mancia si riusciva ad aggirare l'ostacolo e spesso a mantenere il regime alimentare solito...
Ci racconta il periodo della quaresima il poeta romanesco G.G.Belli nel sonetto: Er primo giorno de quaresima..
Addio ammascherate e carrettelle, pranzi, cene, marenne e colazione, fiori, sbruffi, confetti e carammelle. 
[Versione. Addio a mascherate e carrozzelle, merende e colazioni, fiori, spruzzi, confetti e caramelle.]

C'era però anche chi era ligio a quanto imponevano i divieti emanati dalle autorità ecclesiastiche: per questi rimanevano soltanto i ceci e il baccalà, per chi, come già detto,  se lo poteva permettere... vista la povertà in cui viveva  il popolo, per il quale era quaresima tutto l'anno. 

I maritozzi  
Un'usanza prettamente romana era il  maritozzo quaresimale (2), dolce tipico romano, che si usava mangiare in alternativa, proprio in questo periodo, perlopiù a cena. 
E qualcuno era così devoto... da mangiarsene chissà quanti anche durante il giorno..
Almeno così ci riferisce, con la sua arguzia tutta romanesca, Giggi Zanazzo, nei suoi "Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma" .

Simboli dell'amore
Un'altra usanza, che ci può far pensare all' attuale festa degli innamorati era quella di regalare il primo venerdì di marzo il «santo maritozzo» alla propria fidanzata, dalla forma «trenta o quaranta vorte ppiù ggranne de quelli che sse magneno adésso; e dde sopre era tutto guarnito de zucchero a ricami». 
[...trenta o quaranta volte più grande di quelli che si magnano adesso; e di sopra era tutto guarnito di zucchero a ricami]
Roesler F., Prati di castello
Sul maritozzo ci potevano essere disegnati due cuori intrecciati, oppure due mani che si stringono, o un cuore trafitto da una freccia  («dù cori intrecciati, o ddù mane che sse strignéveno; oppuramente un core trapassato da una frezza»). 
Tutti simboli che si usavano nelle lettere scambiate fra innamorati. 
Dentro al maritozzo, qualche volta, ci si metteva dentro come dono un anello o altro oggetto d'oro. L'origine  del nome e' sicuramente una deformazione del nome marito...
In una canzoncina in uso a Roma sparita si diceva:

«Oggi ch’è ’r primo Vennardì dde Marzo,
Se va a Ssan Pietro a ppija er maritòzzo;
Ché ccé lo pagherà ’r nostro regazzo».
E dde ’sti maritòzzi:
«Er primo è ppe’ li presciolósi;
Er sicónno pe’ li spósi;
Er terzo pe’ l’innamorati;
Er quarto pe’ li disperati».
«Stà zzitto, côre:
Stà zzitto; che tte vojo arigalàne3
Na ciamméllétta e un maritòzzo a ccôre».


[Versione. 
Oggi che è il primo venerdì di Marzo,
si va a San Pietro a prendere il maritozzo
che ce lo pagherà il nostro ragazzo
E di questi maritozzi:
"il primo  è per chi ha fretta
il secondo è per gli sposi, il terzo per gl'innamorati
il quarto per i disperati
stai zitto, cuore
sta zitto che ti voglio regalare
una cimabelletta e un maritozzo fatto a cuore"]
E infatti certi maritòzzi in quel periodo erano fatti a forma di cuore.

Racconta Zanazzo (2)
Così i maritozzi per Zanazzo sono "pani di forma romboidale, composti di farina, olio, zucchero e talvolta canditure o anaci o uve passe. Di questi si fa a Roma gran consumo in quaresima, nel qual tempo di digiuno si veggono pei caffè mangiarne giorno e sera coloro che in pari ore nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno."

Riferisce che a Roma sparita i ragazzi e le ragazze insieme alle minenti, cioè  popolane arricchite sempre molto vistose, che ci tenevano moltissimo ad esporre il loro status, andavano tutti a san Pietro ogni venerdì di marzo e con la scusa di sentire la  predica di qualche predicatore quaresimale, facevano conversazione, facevano l'amore e mangiavano proprio i maritozzi
E chi ci  andava acquistava l'indulgenza.
 Tutti i venerdì anche il papa era lì, accompagnato dai cardinali che lo seguivano due alla volta, poi le guardie nobili, dagli svizzeri e anticamente dalle guardie urbane  (dette capotori).
Arrivato a san Pietro si inginocchiava a rimaneva a pregare qualche mezz'ora. 

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(1) Attualmente questo dolce è costituito da pane morbido preparato con pinoli, uva e scorzetta d'arancia candita e eventualmente tagliato in due, per lungo, spesso riccamente farcito con panna montata.
(2) E sono stati immortalati nel 1851 da Adone Finardi, che scrisse in dialetto romanesco un poemetto dal titolo «Li maritozzi che se fanno la Quaresima a Roma». E i mmaritozzi compaiono pure nel famosissimo sonetto di G.G. Belli " Er padre de li santi" .

7 marzo 2023

Donne di Roma sparita, senza peli sulla lingua..

La prontezza nel rispondere a tono delle donne romane era ed è risaputa da tutti...Anche il teatro, cinema, letteratura hanno contribuito a rappresentare la figura di una popolana sempre pronta a dire la verità, a rispondere a tono sia alle altre donne popolane o nobildonne che siano, sia agli uomini con cui avevano a che fare. Mariti, fratelli ma non solo..

G.G. Belli e G.Zanazzo ci raccontano le donne del loro tempo

Sia Giggi Zanazzo, e prima di lui il Poeta Belli dedicano molta attenzione alle donne, sempre molto presenti sia nei Sonetti belliani che nei lavori di Zanazzo..
Una breve scenetta scritta da Giggi Zanazzo ci aiuta a ricostruire il carattere della donna romana
La protagonista è una ragazza che sicuramente doveva essere di bella presenza, che si reca in chiesa per purificare l’anima dai peccati, e si trova davanti un confessore un po’ troppo “invadente”.

Il prete, in maniera poco ortodossa, piuttosto che chiederle dei suoi peccati fa domande che mettono in luce la curiosità morbosa, tipica di alcuni preti-confessori. 
Questa tipologia di sacerdoti sfruttava la posizione di superiorità che esisteva fra loro e i fedeli per carpire qualche segreto circa la sfera sessuale di quella, che in questo caso, credeva una ingenua ragazza, credulona e rispettosa dell'autorità.
Ma il prete forse non sapeva che nel confessionale c'era una romana de' Roma..senza peli sulla lingua.

Godiamoci questa divertente scenetta...
"Indove te róde grattete"

Dice che 'na vorta una bbella regazza s'agnede a cconfessà.
Er confessore ch'era un prete ggiovine j'incominciò a ffa' un sacco de domanne, de questo, de quello, e de quell'antro. Come se chiamava er padre, che mmestiere faceva, chi bbazzicava, eccetra ; la madre che ffaceva, quanti fratelli ciaveva e cche ffaceveno ; si llei faceva l'amore, con chi, eccetra eccetra.

La regazza abbozzò, abbozzò, e ccercò de risponne come potè mmejo a le domanne de quer ficcanaso der prete. Ma quanno questo se n'uscì cor domannaje si la notte quanno stava a lletto, indove tieneva le mano, lei spazzientita j'arispose :

Le tiengo in croce sur petto, e indove me rode me gratto.


[versione. Dove hai prurito grattati.
Si racconta che una volta una bella ragazza andò a confessarsi.
Il confessore che era un prete giovane incominciò a fare un sacco di domande, chiedendo questo quello e quell'altro. Come si chiamava il padre, che mestiere faceva, chi bazzicava, etc; che faceva la madre, quanti fratelli aveva e che facevano; se lei faceva l'amore, con chi , etc..
La ragazza sopportò, sopportò, e cercò di rispondere come meglio potè alle domande del quel prete ficcanaso: ma quando questo se ne usci con domandarle se la notte quando stava a letto dove teneva la mano, lei spazientita gli rispose:
-Le tengo in croce sul petto, e dove mi prude, mi gratto.]

Il confessionale.
San Carlo Borromeo nel 1577 pubblica due libri sulle Istruzioni intorno alla Fabbrica ed alla suppellettile ecclesiastica [clicca qui] in cui si parla per la prima volta del confessionale, che prima di lui non esisteva.
Il suo principio di vita era che l’ordine interiore si raggiungesse attraverso l’ordine esteriore: per rimanere puri occorreva rinunciare il più possibile a contatti con gli altri. Così l'invenzione del confessionale risponde dunque a questa esigenza morale ma anche ad una necessità sanitaria, per via delle pestilenze che flaggellavano Milano. 
Così la necessità di un mobile di legno, chiuso, che consentiva di comunicare tra sacerdote e penitenti solo attraverso una grata bucherellata (con fori "della grandezza di un cece").
G. Bodinier. Paysanne
de Frascati au confessionnal
 (1826)

Cap. XXIII: Il confessionale

Anche nella chiesa più modesta ve ne devono essere al­meno due, per tener distinti gli uomini dalle donne. Se gli officianti sono molti, come nelle cattedrali e nelle collegiate, ve ne sarà uno per ciascuno, sempre distinti fra quelli riservati al­l'uno e all'altro sesso. Dev'essere in legno, chiuso su cinque lati ma aperto sul davanti, con la possibilità però di chiuderlo a chiave con un cancello o un graticcio perchè "quando non c'è il confessore, laici, vagabondi o persone sudicie non vi si possano sedere e dormire oziosamen­te, con irriverenza del ministero che ivi si esercita" ( pag. 124).  Dev'essere diviso vertical­men­te in due ambiti, uno per il sacerdote e uno per il penitente, e dev'essere collocato in modo che il sacerdote si trovi sempre verso l'altar maggiore e il penitente verso la porta. Il tramezzo fra i due ambiti dev'essere aperto da uno sportello che verso il confessore avrà una tendina e verso il penitente una grata piuttosto fitta (con fori "della grandezza di un cece"). Da entrambe le parti vi saranno cartelli pro-memoria per le rispettive funzioni.